Il tartufo bianco
Tuber magnatum è un fungo Ascomicete della famiglia Tuberaceae che cresce spontaneamente in Croazia, Slovenia, Svizzera ed Italia (Piemonte e Toscana). In natura produce raramente le ectomicorrize e solo a seguito di tale fenomeno è in grado di sviluppare il corpo fruttifero, ovvero il tartufo conosciuto sul mercato. Il suo sviluppo raro e l’incapacità attuale di coltivarlo per una produzione massale influenzano positivamente il suo valore economico, che può arrivare anche a 2000 €/kg. L’Italia è uno dei massimi produttori ed è riconosciuta per l’alta qualità del prodotto, tanto che il tartufo bianco d’Alba è ormai noto globalmente.
Il food tracking
Ma come è possibile certificare la provenienza di un alimento così pregiato? Il food tracking è ormai uno strumento ampiamente utilizzato a tale scopo e vede le sue radici nell’analisi genetica degli alimenti commercializzati. Finora gli approcci più comuni prevedevano il metabarcoding e l’analisi degli SNP, ma la diversità genetica, a volte, può essere talmente ridotta da non permettere una discriminazione attraverso tali tecniche. Risulta, quindi, sempre più importante trovare nuove strategie che tutelino il nostro patrimonio agro-alimentare e che consentano di certificare in maniera univoca la provenienza, e quindi la qualità, di prodotti economicamente importanti come il tartufo bianco. A tal fine il mio studio si è concentrato sulle popolazioni microbiche del tartufo bianco, aprendo una nuova prospettiva nella certificazione della provenienza dei prodotti.

Le associazioni microbiche
E’ noto ormai da tempo che le popolazioni microbiche varino a seconda dell’ambiente, in relazione ai fattori biotici ed abiotici presenti in loco. Ad esempio, il microbioma della vite coltivata al Nord Italia si differenzia da quello della vite coltivata in Sud Italia, così come è stata osservata una differenza nel microbioma del tartufo nero (Tuber melanosporum) coltivato in diverse regioni. Diversi studi hanno studiato il microbioma del tartufo bianco, senza però fornire risultati definitivi. Sono state, infatti, riscontrate spesso incongruenze tra gli studi e i dati raccolti sono ridotti, data la mancata capacità di coltivazione del tartufo bianco e il suo ristretto areale di crescita.
Si sa, però, che nel tartufo bianco, come in altre specie, vengono selezionate specie atte allo sviluppo tartufigeno che provvedono, per esempio, all’acquisizione dell’azoto e degli altri nutrienti. I taxa riscontrati maggiormente durante i diversi studi sono stati: Firmicutes, Actinobacteria, Cyanobacteria, Bacteroides e α-Proteobacteria. Tra gli α-Proteobacteria molte analisi hanno evidenziato la presenza massiccia del genere Bradyrhizobium.
Lo studio

Lo studio ha preso in considerazione campioni di tartufo, di terreni tartufigeni e di terreni non tartufigeni provenienti da tre regioni della Toscana: Casentino, Crete Senesi e Mugello. Le tre regioni presentano delle differenze a livello pedologico e climatico, ma le proprietà chimico-fisiche del suolo risultano comparabili tra di loro. Da questa prima analisi si esclude, quindi, un impatto significativo da parte delle condizioni abiotiche.
Metodologia di analisi
L’analisi è quindi proceduta con l’estrazione del DNA batterico da gleba (tessuto interno del tartufo), da peridio (tessuto esterno), da suoli tartufigeni e da suoli non tartufigeni, al fine di determinare una differenza tra le popolazioni microbiche che consentisse di contestualizzare la regione di origine dei tartufi presi in esame. La ricerca si è sviluppata innanzitutto con amplificazione e sequenziamento del DNA isolato da ciascun campione e, successivamente, le sequenze ottenute sono state analizzate tramite approccio bioinformatico (pipeline qiime2).
Questo ha permesso di identificare le popolazioni batteriche associate ad ogni comparto preso in esame (gleba, peridio, suolo produttivo e suolo non produttivo). Le analisi statistiche condotte in seguito, tramite software quali METAGENassist e Microbiome Analyst, hanno permesso di quantificare tali popolazioni in termini di numero di individui per ordine in relazione alle diverse condizioni biotiche e abiotiche dei tre siti.
Risultati
I taxa bar plot
Il microbioma della gleba è stato comparato con quello del peridio, per valutare l’eventuale variazione microbica nei diversi tessuti del tartufo e il suo ruolo biologico, mentre il suolo tartufigeno è stato comparato al suolo non tartufigeno, al fine di determinare la presenza di popolazioni strettamente associate alla capacità di sviluppo del tartufo bianco. Tale procedura è stata esplicata tramite la produzione di taxa bar plot.
Un’analisi più approfondita ha evidenziato che gleba e peridio si distinguono per la presenza di taxa specifici, nella gleba sono presenti probabilmente in maniera univoca Flavobacteriales ed Enterobacteriales, mentre nel peridio sono presenti Sphingomonadales e Pedosphaerales. Questi dati indicano che ogni comparto presenta delle popolazioni specifiche associate, probabilmente in relazione al ruolo che gleba e peridio svolgono nel ciclo di sviluppo del tartufo. L’analisi comparata delle popolazioni associate ai due suoli ha evidenziato, sempre a livello di ordine, una minore diversità tra i comparti suolo, ma una maggiore diversità in termini di numero di specie rispetto ai comparti gleba-peridio.


Distribuzione delle popolazioni batteriche
La visulizzazione grafica dei dati ha permesso di osservare l’incremento progressivo del numero di specie dalla gleba, al peridio, al suolo produttivo fino al suolo non produttivo, permettendoci di ipotizzare la presenza di una pressione selettiva esercitata nel tartufo, in particolare nella gleba. In tal senso la domanda che è sorta è stata: qual è il ruolo del tartufo nella selezione delle popolazioni microbiche associate? Questa riflessione ci ha condotto a formulare altre domande come: il tartufo partecipa attivamente nell’esercizio di tale pressione o, piuttosto, sono le condizioni abiotiche in cui esso si sviluppa che determinano la selezione del microbioma associato?
Ancora: quale ruolo svolge il microbioma sull’ambiente di sviluppo in termini di condizioni biotiche ed abiotiche? Purtroppo, a tali quesiti non vi è ancora risposta ma, sicuramente, gettano le basi per una maggiore comprensione del processo di associazione microbica.
Calcolo dell’alpha e della beta diversity
I dati hanno necessitato di essere validati e, a tal fine, è stata calcolata l’alpha diversity a livello di ogni comparto. Tale procedura ha confermato che, effettivamente, la gleba è il comparto con la minore diversità associata rispetto agli altri e, quindi, presenta un numero inferiore di specie batteriche. Il calcolo della beta diversity, invece, ha permesso di comprendere quali specie fossero maggiormente presenti in ogni comparto. I risultati hanno mostrato che la gleba si distingue per la presenza di specie univoche (dato già parzialmente osservato con i taxa bar plot iniziali), mentre il peridio condivide molte delle specie associate con il terreno produttivo.


Tale informazione sottolinea la presenza di una pressione selettiva crescente dal suolo non produttivo alla gleba, ma evidenzia anche come le analisi preliminari effettuate tramite taxa bar plot non fossero sufficienti a discriminare in maniera univoca i comparti. Infatti, i taxa bar plot hanno evidenziato una maggiore analogia in termini di microbioma associato tra i due suoli, mentre la beta diversity ha permesso di evidenziare una maggiore analogia tra peridio e terreno produttivo.
Il t-test
Un’ulteriore analisi che ha fornito risultati interessanti è stato il t-test effettuato per la coppia gleba-peridio e per la coppia suolo produttivo-non produttivo. Tramite questo test si sono ricercati quegli ordini presenti solo ed esclusivamente in un comparto, permettendo di discriminarlo univocamente dagli altri. La gleba si distingue per la presenza di Burkholderiales e Rhizobiales, il peridio per quella di Sphingomonadales, il suolo produttivo per i Bacillales e il suolo non produttivo per i Nitrospirales e i Nitrososphaerales. Si ipotizza che la presenza di Burkholderiales e Rhizobiales esclusiva nella gleba sia necessaria al tartufo per l’acquisizione dell’azoto.
Nel suolo non produttivo, invece, Nitrososphaerales e Nitrospirales sembrano correlati ad un pH acido, che non permette lo sviluppo tartufigeno. Tutte le informazioni ottenute hanno permesso di asserire con sicurezza che ogni comparto è ben distinguibile dall’altro e che è, quindi, possibile riconoscere un suolo tartufigeno per la presenza di un microbioma specifico.




Distinzione dei corpi fruttiferi provenienti da siti differenti
Successivamente è sorto però un ulteriore quesito: il microbioma associato permette anche di distinguere tartufi che provengono da regioni così vicine e così simili tra di loro? Per rispondere a questa domanda è stata calcolata l’alpha diversity per le glebe provenienti da Casentino, Crete Senesi e Mugello. I risultati hanno mostrato che le glebe del Casentino presentano un microbioma specifico rispetto a quello delle glebe di Crete Senesi, che a loro volta si distinguono dalle glebe del Mugello.

Conclusioni dello studio
L’ipotesi iniziale, che prevedeva la possibilità di distinguere i tartufi provenienti da siti diversi, è stata confermata, gettando nuove prospettive nell’applicazione del food tracking. In conclusione, lo studio ha avuto successo e ha fornito dei risultati promettenti anche per studi futuri, evidenziando la crescente necessità di proteggere il nostro patrimonio eno-gastronomico per tutelare i piccoli produttori locali e per salvaguardare prodotti altamente redditizi quali il tartufo bianco.
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