I modelli atomici

La chiave per comprendere la natura della materia

L’atomo è la più piccola unità di materia che mantenga le proprietà chimiche di un elemento. La comprensione della struttura atomica è fondamentale per la chimica e la fisica. Da secoli gli scienziati cercano di descrivere l’atomo in modo preciso e comprensibile. Questa ricerca ha portato allo sviluppo di diversi modelli atomici, rivoluzionando di fatto le conoscenze scientifiche pregresse.

L’atomo indivisibile: il primo modello atomico

Il primo modello atomico fu proposto da John Dalton nel 1803 e si basava su le tre leggi ponderali della chimica, l’ultima delle quali fu formulata da lui stesso. In questo contesto la materia veniva descritta come costituita di particelle indivisibili e l’atomo era il mattoncino più piccolo che la componeva. Atomi dello stesso elemento avevano uguale massa e dimensione, non potevano essere né creati né distrutti, ma solo “trasferirsi” da un composto a un altro. Ben presto, però, ci si accorse che un simile modello non poteva giustificare i fenomeni elettrici e la natura dei legami atomici quando formavano le molecole. [1]

Il modello atomico a panettone

Dopo la scoperta dell’elettrone avvenuta nel 1897, Joseph John Thomson ipotizzò un m. atomico in cui erano presenti anche queste particelle, conficcate all’interno di una sfera positiva uniformemente carica, di raggio pari al raggio atomico (circa 10-10 m), con una disposizione simile all’uvetta nel panettone; per questo motivo viene ricordato per somiglianza al celebre dolce di Natale. Se da un lato il modello atomico di Thomson riusciva a spiegare la stabilità elettrostatica degli atomi, dall’altra non riusciva a giustificare la loro radiazione spettrale.

Il modello atomico a panettone di Thomson
Figura 1 – “Il modello atomico a panettone di Thomson
[Fonte: lascienzapertutti.infn.it]

Il modello planetario

Tra il 1909 ed il 1911 il neozelandese Ernest Rutherford indagò la struttura dell’atomo utilizzando la radioattività. Bombardò una lamina d’oro utilizzando dei raggi α di polonio carichi positivamente e studiò poi la deflessione subita dalle particelle in seguito all’urto.

I risultati sperimentali furono sorprendenti: mentre la maggior parte delle particelle α attraversava la lamina d’oro senza apprezzabili deviazioni, un certo numero di proiettili veniva deflesso fortemente e circa una particella su 6 milioni era addirittura rimbalzata all’indietro. Sembrava proprio che la carica positiva nell’atomo fosse concentrata in una zona di raggio molto minore rispetto a quello ipotizzato dal modello a panettone e questo implicava anche che il suo campo elettrico fosse molto più forte rispetto a quanto ipotizzato da Thomson.

Sulla base dei risultati sperimentali, Rutherford nel 1911 propose un nuovo modello atomico, detto anche atomo planetario per la struttura analoga a quella del sistema solare, in cui l’atomo è per lo più vuoto, con la carica positiva concentrata in un nucleo centrale ed è bilanciata dagli elettroni che gli ruotano intorno su orbite circolari [2].

Modello atomico planetario di Rutherford
Figura 2 – “Modello atomico planetario di Rutherford” [Fonte: fabioscolari.it]

Il modello atomico di Bohr: le orbite quantizzate

Il limite maggiore del modello atomico di Rutherford riguardava il moto degli elettroni. La fisica classica, infatti, prevedeva che essendo gli elettroni delle cariche in movimento, essi avrebbero dovuto emettere una radiazione elettromagnetica, perdere progressivamente energia e collassare sul nucleo. Ma perché questo non si verificava? A spiegarlo nel 1913 fu il fisico danese Niels Bohr che applicò allo studio della struttura atomica i principi della quantizzazione dell’energia e il dualismo onda-particella chiariti da Planck e Einstein a inizio secolo.
Osservando gli spettri di emissione e di assorbimento dell’atomo di idrogeno, Bohr propose un modello atomico a orbite quantizzate che si basava sui seguenti punti:

  • l’elettrone percorre solo determinate orbite circolari quantizzate, nelle quali ruota senza assorbire né emettere energia (orbite stazionarie);
  • l’elettrone assorbe energia solo se salta da un’orbita a un’altra di livello energetico maggiore;
  • se l’elettrone torna a un livello di energia minore l’atomo emette energia, sotto forma di fotoni;
  • l’energia della luce, emessa o assorbita, è uguale alla differenza di energia delle due orbite;
  • ogni salto corrisponde a una riga dello spettro atomico. [1]
Il modello atomico di Bohr applicato all'atomo di Idrogeno
Figura 3 – “Il modello atomico di Bohr applicato all’atomo di Idrogeno”
[Fonte: online.scuola.zanichelli.it]

Il modello atomico di Bohr-Sommerfeld: dall’orbita all’orbitale

Se da una parte il modello atomico di Bohr riusciva perfettamente a spiegare lo spettro e quindi la struttura dell’atomo di idrogeno, dall’altra risultava inadeguato per gli atomi con più di un elettrone. Nel 1915 Sommerfeld lo migliorò facendo alcune precisazioni sulle orbite: che non erano circolari, bensì ellittiche, con il nucleo ad occupare uno dei due fuochi e possedevano energia quantizzata, ma questa era distribuita non in un singolo livello, ma in diversi sottolivelli energetici, perciò a seconda del sottolivello di partenza e di quello di arrivo della transizione energetica, si potevano ottenere righe diverse dello spettro. Tali sottolivelli presero il nome di orbitali. [3]

Il modello atomico di Bohr-Sommerfeld è stato un importante passo avanti nella nostra comprensione dell’atomo. Sebbene sia stato poi superato da modelli più avanzati, il concetto di livelli energetici quantizzati ha permesso di spiegare molti fenomeni osservati sull’atomo, aprendo la strada alla successiva evoluzione della fisica atomica e alla scoperta di nuove tecnologie basate sulla conoscenza della struttura dell’atomo.

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Chiara Mochi

Chimica, con specializzazione in Chimica Fisica, attualmente Responsabile Assicurazione Qualità per un laboratorio prove accreditato. Nel tempo libero leggo, scrivo e gestisco la biblioteca del mio paese. Mi trovi qui: https://www.linkedin.com/in/chiaramochi/

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