Lo Staphylococcus aureus è un batterio che normalmente vive sulla nostra pelle e passaggi nasali senza creare particolari problemi. In casi rari però, può causare infezioni oltrepassando alcune delle nostre barriere protettive (ad esempio attraverso ferite o in casi di immunodeficienza). Le infezioni di questo batterio in alcuni casi possono causare polmoniti o addirittura portare a sepsi.
Queste situazioni pericolose possono essere evitate con l’uso di antibiotici. Purtroppo, alcuni ceppi di S. aureus stanno diventando sempre più resistenti ai farmaci, per questo è importante capire il meccanismo di crescita e sopravvivenza di questo microrganismo nel nostro corpo.
Cos’è lo Stafilococco?
Identificato nel 1884 dallo scienziato tedesco Anton Rosenbach, lo Staphylococcus aureus (così chiamato per la particolare colorazione giallo-oro delle sue colonie) è un batterio Gram positivo e anaerobio facoltativo a forma di sfera (“cocco”, appunto). Questo batterio è normalmente presente nel tratto respiratorio superiore, sulla pelle e nella mucosa intestinale come membro del nostro microbiota.
Prima degli anni Quaranta le infezioni da S. aureus risultano fatali per la maggior parte dei pazienti, con un tasso di mortalità dell’81% registrato nel 1941 in un ospedale di Boston. Sempre nello stesso anno, un paziente inglese viene curato con la penicillina, che viene utilizzata come cura fino alla fine degli anni Quaranta. A causa della comparsa di ceppi di S. aureus resistenti alla penicillina, quest’ultima perde presto efficacia. Nel 1956 viene scoperto un altro antibiotico della classe delle penicilline in grado di controllare le infezioni da S. aureus: la meticillina. Nel giro di pochi anni anche l’uso di questo antibiotico perde efficacia a causa della comparsa di ceppi resistenti ai beta-lattamici (oggi noti come MRSA, o Staphylococcus aureus resistente alla meticillina).

Ruolo di S. aureus nelle infezioni
S. aureus normalmente convive come commensale nel microbiota del 30% delle persone. Nel contesto di tagli, abrasioni, cateteri o ferite chirurgiche può essere però causa di un’ampia gamma di infezioni per il nostro organismo. Tra queste, le infezioni della pelle e dei tessuti molli, come foruncoli, cellulite e ascessi, che sono tra i tipi più frequenti di infezioni contratte in comunità.
Questo patogeno può anche causare infezioni più invasive e pericolose. Se entra nel flusso sanguigno, per esempio, può diffondersi agli organi interni, causando sepsi, endocardite (infezione delle valvole cardiache), osteomielite (infezione delle ossa) o polmonite. Negli ospedali, lo S. aureus è una delle principali cause di infezioni post-chirurgiche e di infezioni legate a cateteri o impianti.
La patogenesi di S. aureus dipende dall’azione combinata di numerosi fattori di virulenza, molecole o strutture che aiutano un microrganismo a colonizzare un ospite. Nello specifico, questo patogeno utilizza proteine legate alla sua parete cellulare, enzimi e tossine per invadere l’ospite ed evadere il suo sistema immunitario. Ad esempio, S. aureus è in grado di produrre proteine di superficie che ne facilitano l’adesione ai tessuti (adesine). Un altro esempio è la proteina A, che si lega agli anticorpi IgG esercitando un effetto antifagocitario. Inoltre, S. aureus produce diverse esotossine citolitiche, spesso definite emolisine, che attaccano le membrane delle cellule di mammifero (inclusi i globuli rossi) disfacendole.
Come sopravvive durante le infezioni?
Tra i bisogni primari di S. aureus durante un’infezione ci sono particolari richieste nutrizionali. In particolare, il ferro è un nutriente essenziale per il batterio, e si conoscono almeno tre meccanismi con i quali questo patogeno se lo procura dall’ospite: i siderofori, i recettori della lattoferrina e gli emofori (tutte molecole in grado di legare ioni ferro). Il principale metodo utilizzato da S. aureus è quello che gli permette di estrarre il ferro dal nostro sangue a partire dall’emoglobina.
L’emoglobina (indicata con la sigla Hb) è una proteina globulare formata da quattro catene polipeptidiche ognuna contenente un gruppo eme, un complesso chimico costituito da uno ione ferro Fe2+. Quello che utilizza il batterio in questo caso è il sistema di emofori “Iron-regulated surface determinant” (Isd), che è formato da nove proteine (IsdA-isdI) in grado di catturare l’Hb ed estrarre il gruppo eme. Successivamente, queste lo trasportano attivamente attraverso la parete e la membrana cellulare, dove infine lo ossidano per liberare il ferro. Le proteine IsdB e IsbH sono le componenti principali del sistema e si occupano entrambe di intercettare il ferro extracellulare, ma solo IsdB rappresenta un fattore di virulenza.

Trovare un modo per interferire con questo meccanismo significherebbe deprivare il batterio di nutrienti e interromperne la proliferazione, e rappresenta dunque una interessante strategia da esplorare per lo sviluppo di farmaci antimicrobici per combattere le infezioni di S. aureus e dei suoi ceppi multiresistenti, segnalati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS, o WHO “World Health Organization”) come patogeni di elevata importanza e priorità per gli investimenti nel contesto della ricerca di nuovi farmaci.
Fonti
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Crediti immagini
- Immagine in evidenza e Figura 1: https://phil.cdc.gov/details.aspx?pid=10046
- Figura 2: De Bei, O., Marchetti, M., Guglielmo, S. et al. Time-resolved X-ray solution scattering unveils the events leading to hemoglobin heme capture by staphylococcal IsdB. Nat Commun 16, 1361 (2025). https://doi.org/10.1038/s41467-024-54949-w