Il mondo delle bioplastiche

L’utilizzo di bioplastiche può aiutare a mitigare i problemi legati allo smaltimento delle plastiche tradizionali e all’inquinamento ambientale che ne deriva. Negli ultimi venti anni la domanda da parte dei mercati economici di tutto il mondo è aumentata di molto. Infatti, le bioplastiche sono utilizzate in diversi campi: dal packaging all’industria tessile e all’agricoltura. Prima di avventurarci nel mondo delle bioplastiche è importante sottolineare che anch’ esse devono essere smaltite in modo adeguato. Alla fine della propria vita possono essere inviate al compostaggio, essere riciclate oppure riutilizzate per creare un prodotto di maggiore qualità (upcycling).

A prima vista, plastiche e bioplastiche sembrano simili. Ma si sa, l’apparenza inganna! E anche il nome. Plastiche e bioplastiche, infatti, hanno una composizione diversa e quindi ripercussioni ambientali differenti. E’ importante sapere anche che bioplastiche, plastiche biodegradabili, plastiche compostabili e plastiche degradabili sono materiali diversi. Queste parole spesso sono usate come sinonimi ma non c’è nulla di più sbagliato.
E sì, anche la plastica degradabile è differente da quella biodegradabile.

Cosa sono le bioplastiche?

Le bioplastiche sono un tipo di plastica – derivante sia da fonti biologiche che fossili- che può essere biodegradabile, di origine biologica (detta bio-based) o compostabile oppure può possedere tutte queste caratteristiche.

Per capire cosa è una bioplastica bisogna partire dalla definizione di polimero. Questo è una sostanza formata da lunghe catene a loro volta costituite da unità più semplici che si ripetono. Le unità semplici possono essere ripetute poche o tante volte, essere uguali o diverse e inoltre possono anche legarsi tra loro originando polimeri con strutture, caratteristiche e funzioni diverse.

I polimeri sono lunghe catene, lineari o ramificate, formate da unità base più piccole dette monomeri. I monomeri possono essere tutti uguali tra loro oppure diversi.
Figura 1 – I polimeri sono lunghe catene, lineari o ramificate, formate da unità base più piccole dette monomeri. I monomeri possono essere tutti uguali tra loro oppure diversi. [Fonte: Immagine creata con Canva da Elisabetta Cretella]

La plastica, invece, è un materiale costituito sì da polimeri che però sono modificati o mischiati con altre sostanze, chiamate additivi (dai coloranti agli antimicrobici). Questa aggiunta è necessaria per ottenere un materiale che abbia le caratteristiche desiderate e utile agli scopi per cui è stato prodotto.

Quindi, un polimero ha una composizione più semplice rispetto alla plastica.

Inoltre, il prefisso “bio” in biopolimeri e bioplastiche è utilizzato per indicare una o entrambe le seguenti opzioni: 

  1. il polimero è derivato da biomassa (cioè da organismi animali o vegetali); 
  2. il polimero è biodegradabile (cioè degradabile dall’azione di microrganismi).

Il mondo delle bioplastiche: come distinguere la plastica dalla bioplastica?

Gli imballaggi in bioplastica spesso riportano indicazioni come “biodegradabile”, “compostabile” oppure “realizzato con materie prime rinnovabili”. Queste informazioni però non bastano. È necessario cercare sulle confezioni un codice di identificazione dei materiali, generalmente formato da un triangolo con un numero all’interno. I numeri che indicano le plastiche sono compresi tra 1 e 7. Le bioplastiche, invece, potrebbero avere un numero diverso o non averlo proprio. Quindi, l’assenza del numero o la presenza di uno maggiore di sette indica che il materiale è biodegradabile o compostabile e si può conferire nell’umido.

I simboli indicanti che l'oggetto è costituito da plastica e da che tipo (a sinistra) e quello indicante le bioplastiche (a destra).
Figura 2 – I simboli indicanti che l’oggetto è costituito da plastica (a sinistra) e quello indicante le bioplastiche (a destra). [Fonte: Immagine creata con Canva da Elisabetta Cretella]

Le plastiche degradabili sono quelle fotodegradabili e oxodegradabili

Prima di continuare il viaggio nel mondo delle bioplastiche descriviamo brevemente cosa sono le plastiche degradabili.

Le plastiche foto- e osso-degradabili sono materiali composti da polimeri derivati dal petrolio. Sono quindi plastiche tradizionali. Tuttavia, ad esse sono aggiunti degli additivi che ne migliorano la frammentazione se esposte alla radiazione ultravioletta, cioè alla luce solare (fotodegradabili), o all’ossigeno (oxodegradabili). La degradazione, quindi, tende ad essere incompleta portando all’accumulo di plastica parzialmente degradata e di piccolissime dimensioni nell’ambiente. Spesso ci si riferisce a queste plastiche come biodegradabili ma in realtà non lo sono. Semplicemente si sminuzzano in pezzetti più piccoli che i nostri occhi non riescono a vedere.

Il mondo delle bioplastiche: alla base ci sono i biopolimeri

Le bioplastiche sono composte da biopolimeri, cioè polimeri prodotti attraverso processi biologici. Questo non significa che sono necessariamente biodegradabili. Infatti, esistono polimeri ottenuti da fonti naturali e rinnovabili che però non sono biodegradabili. L’uso di materie prime rinnovabili non è sufficiente per ottenere una bioplastica anche biodegradabile. Un esempio è il cosiddetto polietilene verde che si comporta esattamente come quello derivante da fonte fossile. Quindi non è né biodegradabile né compostabile. Si parla allora di plastiche vegetali, dette anche plant-based (che è diverso da bioplastiche biodegradabili!).
La biodegradabilità di un polimero o di un materiale plastico non dipende dalla sua fonte, che può essere rinnovabile o meno, ma dalla sua struttura chimica.

Il fantastico trio delle bioplastiche

Esistono tre tipi differenti di bioplastiche:

  • quelle a base biologica (o bio-based) derivano da sostanze vegetali e animali (ad esempio il mais, il grano, la tapioca, le patate, la canna da zucchero, gli oli vegetali, le alghe e la cellulosa). Sono biodegradabili. Tra queste ci sono l’acido polilattico (PLA), i poliidrossialcanoati (PHA e PHB) e quelle a base di amido come il MATER-BI.
  • quelle derivanti da fonti fossili (come il petrolio). Tra queste ci sono il polibutilene adipato tereftalato (PBAT), il policaprolattone (PCL) e il polibutilne succinato (PBS). Anche queste sono biodegradabili. Inoltre, il PBS può essere ottenuto anche da sostanze vegetali o animali (chiamate genericamente biomasse).
  • quelle derivanti (parzialmente o interamente) da biomassa dette plant-based. Non sono biodegradabili nonostante nonostante l’origine rinnovabile. Ne sono un esempio la bio-PP e il bio-PET. In gergo scientifico sono definite bioplastiche drop-in. Queste sono indicate dal simbolo con il triangolo con all’interno il numero del polimero corrispondente (1 per il bio-PETE, 2 per l’HDPE, 3 per il PVC, etc.). Si conferiscono nella plastica.
Il mondo delle bioplastiche. Le plastiche tradizionali sono solo di origine fossile e non biodegradabili; le bioplastiche, invece, possono derivare sia da fonti fossili che da fonti biologiche. L'origine biologica non ne garantisce necessariamente la biodegradazione.
Figura 3 – Il mondo delle bioplastiche. Le plastiche tradizionali sono solo di origine fossile e non biodegradabili; le bioplastiche, invece, possono derivare sia da fonti fossili che da fonti biologiche. L’origine biologica non ne garantisce necessariamente la biodegradazione. [Fonte: Immagine creata con Canva da Elisabetta Cretella]

Il polimero biodegradabile più richiesto è il PLA. Seguono i materiali a base di amido, comprese le miscele, e poi il PBAT e le sue miscele.

Dai polisaccaridi all’acido polilattico: ecco i biopolimeri che derivano da fonti rinnovabili

Tra i biopolimeri che derivano da fonti rinnovabili ci sono:

  • i polisaccaridi : sono i polimeri naturali biodegradabili più famosi. Di questi fanno parte l’amido e la cellulosa. Sono usati soprattutto per le confezioni alimentari.
  • i PHAs (Poliidrossialcanoati): sono una famiglia di polimeri ottenuti dalla fermentazione di zuccheri o lipidi da parte di microrganismi geneticamente modificati. Sono impiegati per la realizzazione di bicchieri, tazze e altri contenitori in carta e cartoncino.
  • il PLA (acido polilattico): è un poliestere termoplastico che si ottiene dalla polimerizzazione dell’acido lattico, a sua volta prodotto dalla fermentazione degli amidi da parte dei batteri. Tra le principali applicazioni ci sono la realizzazione di piatti e posate.
  • il PEF (polietilene furanoato): è un poliestere aromatico chimicamente simile al PET. È usato per la realizzazione di bottiglie, pellicole e fibre.

Gli strani nomi dei biopolimeri che derivano da fonti fossili

Continuiamo il nostro viaggio alla scoperta del mondo delle bioplastiche descrivendo i biopolimeri che derivano da fonti fossili. Di questi fanno parte:

  • Il PBAT (polibutirrato-adipato-tereftalato): è un biopolimero biodegradabile in grado di sostituire il polietilene (PE). È utilizzato per la produzione di sacchetti per la raccolta di rifiuti organici, pellicole trasparenti, sacchetti per frutta e verdura e teli agricoli. Ci si riferisce ad esso chiamandolo anche solo polibutirrato.
  • Il PBS (polibutilene succinato): è un polimero termoplastico biodegradabile trasparente e con elevata resistenza. È sintetizzato a partire da acido succinico (ricavato sia chimicamente che dalla fermentazione dei cereali) e butandiolo. Ha proprietà simili al PET. È usato per la realizzazione di borse o contenitori e per il packaging cosmetico ed alimentare.
  • PVA (alcool polivinilico): è un polimero sintetico biodegradabile ottenuto dalla polimerizzazione dell’acetato di vinile. È utilizzato per la fabbricazione di tubi e drenaggi, per le lenti a contatto e nell’industria tessile per incollare le fibre naturali.

Indipendentemente dalla loro fonte, i polimeri biodegradabili possono essere smaltiti in molti modi differenti. Infatti, possono essere riutilizzati, riciclati o recuperati.

Il mondo delle bioplastiche: Cosa significa biodegradabile?

Se avete le idee un pochino confuse è normale. Siamo arrivati alla fine del nostro viaggio nel mondo delle bioplastiche, facciamo quindi un breve riassunto. Sono stati introdotti tanti nomi, anche simili, ma ognuno con un significato diverso. Esistono plastiche di derivazione biologica (bio-based) che non sono biodegradabili (come il bio-PET e il bio-PP). Tuttavia, ci sono anche plastiche derivate da fonti non rinnovabili che invece sono biodegradabili.

Quindi cosa vuol dire esattamente biodegradabile? La biodegradabilità è la capacità di un materiale di degradarsi spontaneamente in ambiente naturale. Questo può avvenire grazie all’azione combinata di organismi viventi (come i batteri, i funghi, le piante e gli animali) e fisici (come la luce e il calore solare e l’azione dell’acqua). Dalla degradazione dei materiali biodegradabili si ottengono unicamente elementi chimici normalmente presenti in natura.

Come si smaltiscono i polimeri biodegradabili? La risposta nel prossimo articolo.

Bibliografia:

  • Gioia C, Giacobazzi G, Vannini M, Totaro G, Sisti L, Colonna M, Marchese P, Celli A. End of Life of Biodegradable Plastics: Composting versus Re/Upcycling. ChemSusChem. 2021 Oct 5;14(19):4167-4175. doi: 10.1002/cssc.202101226. Epub 2021 Sep 7. PMID: 34363734; PMCID: PMC8518687.

Crediti immagini:

  • Immagine in evidenza: Immagine creata con Canva da Elisabetta Cretella
  • Figura 1 : Immagine creata con Canva da Elisabetta Cretella
  • Figura 2 : Immagine creata con Canva da Elisabetta Cretella
  • Figura 3 : Immagine creata con Canva da Elisabetta Cretella
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Elisabetta Cretella

Elisabetta Cretella Dopo la laurea magistrale in Genetica e Biologia molecolare conseguita presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza e l'abilitazione alla professione di biologo, si appassiona alla divulgazione scientifica. Consegue il Master in Giornalismo e Comunicazione istituzionale della Scienza presso l'Università degli studi di Ferrara e inizia a scrivere per il webmagazine 'Agenda17' del Laboratorio DOS (Design of Science) dell'Università di Ferrara. Intanto intraprende la strada dell'insegnamento. Ad oggi è docente di Matematica e Scienze presso le Scuole Secondarie di primo grado e di Scienze naturali alle Scuole Secondarie di secondo grado. Nel suo curriculum c'è anche un tirocinio svolto in un laboratorio di ricerca dell'Istituto di Biologia e Patologia molecolare del Consiglio Nazionale delle Ricerche (IBPM-CNR) e due pubblicazioni su riviste scientifiche peer reviewed.

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