Oceani e mascherine: una fonte emergente di microplastiche

Tra le conseguenze portateci dalla pandemia dovuta al virus Sars-CoV-2, ritroviamo l’aumento smisurato della produzione ed utilizzo delle mascherine protettive. Le mascherine usa e getta, comunemente dette “chirurgiche”, sono passate dall’essere uno specifico strumento sanitario professionale a misura per mitigare la propagazione del virus. L’aumento della produzione di queste mascherine ha portato all’elaborazione di stime altissime, comprese fra i 2,4 e i 52 miliardi di pezzi solo nel 2020.
Tutto ciò si va ad aggiungere alla già presente produzione di materiali plastici, in cui valori si attestano intorno ai 368 milioni di tonnellate (dato del 2019) di cui annualmente almeno 8 milioni di tonnellate finiscono nei mari adiacenti le coste.  Ma perché le mascherine rappresentano un potenziale pericolo per l’ambiente? Scopriamo insieme come sono collegati i nostri oceani e le mascherine.

Le mascherine monouso

Le mascherine monouso (Fig.1), sono prodotte a partire da polimeri, come ad esempio polipropilene, polietilene o poliestere. Esse consistono essenzialmente di tre strati:

  • Interno – composto da fibre morbide;
  • Intermedio – in cui è presente un filtro fuso;
  • Esterno – composto da fibre dette “non-tessuto”, resistenti all’acqua e colorate.
Oceani e mascherine
Figura 1 – Mascherine monouso. [Fonte: nursetogether.com]

Il filtro fuso è il principale strato filtrante di questi dispositivi prodotto tramite un processo convenzionale di fabbricazione di micro e nano-fibre. I processi di fabbricazione di queste mascherine monouso possono leggermente variare in base anche alla tipologia della mascherina stessa, in quanto ne esistono appunto diversi tipi differenti.

Ai più attenti non sarà sfuggita la presenza di materiali già citati in altrettanti articoli, tra questi il più conosciuto è il polietilene, denominato anche con la sigla PE, o nella sua variante PET (polietilene tereftalato). O il più utilizzato in questo tipo di dispositivi, il polipropilene (PP), conosciuto anche per la sua bassa stabilità foto-ossidativa. Tutti questi materiali se sottoposti ai processi di degradazione sono infatti in grado di dare luogo al rilascio di microplastiche. Da questo iniziamo quindi a comprendere come sia possibile che uno strumento tanto utile, che abbiamo imparato ad apprezzare ed odiare, sia fonte di inquinamento.

I materiali polimerici monouso

I materiali polimerici monouso rappresentano una significativa fonte di inquinamento da plastica e particelle plastiche derivanti, identificati come tali dopo accurate analisi. Esempio lampante di questo tipo di inquinamento sono i materiali utilizzati nei packaging alimentari, le bottiglie di plastica e tantissimi altri prodotti utilizzati anche quotidianamente dall’uomo. Allo stesso modo anche le mascherine inquinano, provocando un aumento delle microfibre plastiche presente nell’ambiente. Come ogni altro tipo di prodotto polimerico, possono subire gli effetti dei fattori ambientali, producendo sottoprodotti e porzioni plastiche di varia misura (tra cui appunto le microplastiche).

Bottiglie di plastica microplastiche
Figura 2 – Bottiglia di plastica. [Fonte: pixnio.com]

E il ruolo della pandemia?

Sebbene le mascherine monouso rappresentino principalmente uno strumento di protezione dei professionisti sanitari, per prevenire eventuali rischi professionali, professionisti non sanitari, hanno utilizzato questo strumento durante la pandemia di SARS nel 2003 e durante quella del 2009 causata dal virus dell’influenza aviaria (H1N1). Viene da sé quindi che anche per l’attuale pandemia (Fig.3), siano state utilizzate come metodo di contrasto contro i contagi, estendendone l’utilizzo a tutta la popolazione mondiale.

Pandemia covid 19
Figura 3 – Persone in attesa presso un aeroporto durante la pandemia da Sars-CoV-2. [Fonte: wikimedia.com]

L’aumento nella produzione e nel consumo delle mascherine ha dato così origine ad una nuova sfida ambientale, che va ad aggiungersi a quelle già presenti. Il sottile filo che tiene insieme oceani e mascherine è tenuto sotto controllo da molti, ed è al centro dell’attenzione di un numero elevato di dibattiti. Alcune associazioni internazionali, che si occupano per l’appunto di valutare le condizioni di inquinamento marino, segnalarono già nel periodo in cui la pandemia aveva ancora le dimensioni di un’infezione virale endemica limitata ad alcuni luoghi con piccoli focolai sparsi per il mondo, un aumento della presenza di mascherine nel mezzo acquatico. In particolar modo OceansAsia, segnalava a febbraio 2020 l’elevata presenza di mascherine nell’oceano antistante Hong Kong. Bisogna specificare, anche giustamente, che questo problema non affligge però solo gli oceani, in quanto elevate quantità di mascherine monouso non smistate correttamente sono state ritrovate in diversi luoghi.

mascherine e oceani
Figura 4 – Mascherina trascinata dalla corrente su una spiaggia. [Fonte: pixabay.com]

Meccanismi di degradazione delle mascherine

Una volta chiarita la composizione materiale di questi dispositivi di protezione, ci tocca quindi affrontare la parte più tecnica della questione. Essendo composte da fibre polimeriche, queste come ogni altro tipo di prodotto polimerico sotto forma di plastica di comune utilizzo, sono soggette a una degradazione ambientale. La degradazione ambientale dei materiali plastici è spesso dovuta a svariati fattori. Tra questi ritroviamo:

  • le radiazioni UV (presenti nella comune luce solare);
  • il movimento delle masse acquatiche;
  • scontri fisici tra materiali dello stesso tipo o con organismi marini;
  • presenza di microrganismi in grado di degradare le molecole polimeriche.

Questa rappresenta una breve lista dei fattori che possono concorrere ad accelerare un processo che di per sé è mosso dalla radiazione solare. Infatti, quando parliamo di degradazione plastica, essa viene definita fotodegradazione. Poiché questi fattori in ambiente marino, sono praticamente onnipresenti, riusciamo ad avere un quadro più chiaro di come le mascherine monouso contribuiscano all’inquinamento da microplastiche. Dati alla mano, sembra che il rilascio di microfibre plastiche da parte di questi dispositivi sia anche abbastanza elevato. Effettive ricerche sul contributo inquinante di questi dispositivi sono tutt’ora in corso. Sotto questo punto di vista viene in nostro soccorso però un recente studio terminato dai ricercatori dell’università di Milano-Bicocca (Unimib).

Lo studio milanese sulle mascherine

Lo scopo principale dello studio condotto da un team di chimici del Dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Terra (UniMib), è quello di sensibilizzare la popolazione ad un più corretto uso e smaltimento delle mascherine. Inoltre, miravano a produrre materiale, fin ora non presente nella letteratura scientifica riguardante l’argomento, in grado di dare dati utili al continuo delle ricerche sull’inquinamento da plastica. Per lo scopo hanno utilizzato 7 mascherine acquistabili normalmente sul mercato in Italia, e prelevato 5 mascherine da una spiaggia italiana (situata in Sardegna). Successivamente hanno sottoposto le 7 mascherine a processi di invecchiamento e degradazione artificiali. Questi sono stati riprodotti con lo scopo di imitare l’azione dei fattori ambientali sul materiale polimerico. Gli esperimenti sono stati condotti cercando di imitare condizioni lievi ed estreme, avendo così un grado generale della degradazione dei polimeri delle mascherine in ambiente acquatico in differenti condizioni.

Esperimenti unimib
Figura 5 – Condizioni di invecchiamento e degradazione riprodotte artificialmente. [Fonte: Francesco Saliu et al., 2021]

Dalla riproduzione delle condizioni di degradazione si è passati poi alla conta delle microfibre prodotte, attraverso diverse tecnologie. La conta è stata effettuata su un particolare filtro di nitrocellulosa, utilizzando una rete di acciaio inossidabile, per limitare le contaminazioni esterne. Immagini al microscopio a scansione elettronica sono state ottenute dall’analisi di questi filtri, aiutando cosi anche l’identificazione di queste microfibre.

I risultati dello studio

Gli esperimenti hanno dimostrato risultati differenti anche in base alle due condizioni stabilite previamente dai ricercatori. Nel caso delle mascherine sottoposte a condizioni di degradazione blande, esse rilasciavano in media 398 fibre.  Nel secondo caso, in cui le condizioni di degradazione erano ben più estreme, le mascherine hanno dimostrato una ben maggiore capacità di rilasciare microfibre. Tra i fenomeni osservati spicca la capacità di formazione di aggregati e frammenti, visibili anche a occhio nudo solamente dopo un giorno di esposizione all’invecchiamento artificiale. Questi aggregati hanno dimostrato di poter formare una struttura denominata “Plastic soup” (zuppa di plastica), che presenta un elevato potere inquinante in ambiente acquatico in grado di diffondere microplastiche e additivi. Il numero approssimativo di particelle rilasciate dalle mascherine in studio si è dimostrato abbastanza elevato in questo secondo caso. La media rappresentativa è di 135000 particelle per mascherina, con un picco di 173000 in un’unica mascherina. (Fig.6)

Tabella riassuntiva mascherine e oceani
Figura 6 – Tabella riassuntiva delle microfibre rilasciate dalle singole mascherine in esperimento. [Fonte: Francesco Saliu et al., 2021]

E in condizioni naturali?

L’analisi delle mascherine monouso prelevate dalla spiaggia, quindi sottoposte ad un periodo indefinito di degradazione ambientale non artificiale, ha permesso ai ricercatori di avere un valido metro di comparazione. L’analisi di queste mascherine assume particolare importanza in quanto le condizioni replicate in laboratorio potrebbero comunque non essere altamente affidabili e rappresentative. Quindi questo tipo di studio, anche comparativo, permette di avere un quadro ben più ampio della situazione. Esse hanno dimostrato che il grado di degradazione delle mascherine prelevate era pressoché simile a quelle utilizzate negli esperimenti controllati.

Immagine a SEM di microfibre
Figura 7 – Immagine di microfibre polimeriche ottenuta con un microscopio a scansione elettronica (SEM). [Fonte: Francesco Saliu et al., 2021]

Attraverso l’analisi a microscopio a scansione elettronica (Fig.7) , essi sono riusciti a ricondurre questo elevato tasso di degradazione allo strato intermedio che compone le mascherine. Una grande quantità di piccole fibre, hanno presumibilmente origine dalla rottura del materiale fuso presente in questo strato. Questi frammenti infatti erano visibili praticamente in tutti i campioni visionati. Lo stesso tipo di analisi condotto sulle mascherine raccolte ha ulteriormente confermato la presenza dello stesso tipo di degradazione.

Effetti del rilascio di questi materiali

La plastica di per sé, rappresenta un pericolo sotto forma di oggetto, per quegli animali in grado di digerirli per interi. Questo non semplifica ovviamente le cose, visto che molti animali marini posseggono dimensioni elevate e sono tranquillamente in grado di digerire bottiglie di plastica o anche confezioni più grandi. Ma l’aspetto più pericoloso di questo tipo di materiale è proprio legato alla sua degradazione e al rilascio di microplastiche. Le mascherine rientrano appunto secondo lo studio citato in precedenza, nella categoria di quegli oggetti in grado di rilasciare questo tipo di materiali nell’ambiente. Gli organismi in grado di essere influenzati dalla presenza della plastica e dei suoi derivati, sono davvero tanti. Dai più grandi mammiferi marini, ai più piccoli microrganismi.

Tartaruga, oceani e mascherine
Figura 8 – Organismi marini e mascherine. [Fonte: shutterstock.com]

È comune ormai ritrovate tartarughe avvolte da imballaggi plastici, pesci di piccole dimensioni rinchiusi in buste, quantità di microplastiche inghiottite dai grandi mammiferi, e tante altre interazioni che forse non sono ancora state studiate. Tra le tante forme di vita, anche i microrganismi sono influenzati dalla presenza di questo materiale. Per i nostri piccoli amici molto spesso rappresenta una sorta di substrato, ma secondo alcune ricerche è anche in grado di rallentarne la crescita, ostacolarne il metabolismo e quindi influenzare tutta una serie di processi che coinvolgono importanti classi di microrganismi marini. Le microplastiche sembrano inoltre, secondo alcuni studi, essere in grado di influenzare organismi vegetali, fondamentali per molti dei cicli dei nutrienti e degli elementi in ambiente acquatico. Insomma, gli oceani e le mascherine sono quindi legati attraverso una relazione negativa, in questo caso per l’ambiente.

Conclusioni

Le mascherine chirurgiche sono diventate un mezzo salvavita durante questa devastante pandemia, in quanto hanno aiutato ad abbattere, se utilizzate correttamente, i contagi. Però rappresenteranno un elemento che perdurerà nell’ambiente per lunghi periodi di tempo. Per questo motivo è importante, alla fine del loro ciclo di vita, smaltirle correttamente. Molte sono le realtà attive sul territorio italiano che portano avanti progetti di sensibilizzazione e anche di riciclo di questi dispositivi. Essendo infatti esse formate da materiale polimerico possono tranquillamente essere riutilizzate per dar vita a nuovi oggetti, non finendo così nei nostri oceani.

Noi, team di Microbiologia Italia, ci uniamo al coro cercando di raggiungere quante più persone possibili, sensibilizzando i nostri lettori su questa delicata tematica. Il nostro pianeta necessita di persone in grado di prendersene cura. Il nostro pianeta non merita di essere inquinato. Prendersene cura, è un nostro dovere, per non affrontare un giorno le conseguenze di questi nostri atteggiamenti.

Fonti

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Francesco Centorrino

Sono Francesco Centorrino e scrivo per Microbiologia Italia. Mi sono laureato a Messina in Biologia con il massimo dei voti ed attualmente lavoro come microbiologo in un laboratorio scientifico. Amo scrivere articoli inerenti alla salute, medicina, scienza, nutrizione e tanto altro.

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